giovedì 14 giugno 2007

CHI TROVA UN MANAGER GENEROSO, TROVA UN TESORO

Scrivere di “generosità manageriale” in questo periodo storico non è cosa facile. Oggi incontriamo sempre più manager pressati da esigenze di budget, stressati da frenetici ritmi di lavoro e di vita, a volte appesantiti da una certa presunzione di ruolo: “Non ho bisogno di fare/non credo nella formazione”.
Chi paga le conseguenze di tali situazioni sono, oltre naturalmente la persona stessa ed i familiari, i collaboratori del manager.
Una domanda sorge spontanea: cosa intendiamo per “generosità manageriale”? Per definire il concetto, proviamo ad elencare una serie di fattori alcuni dei quali “tradizionali” come ad esempio:
- L’incentivazione economica
- Fringe Benefits
- Viaggi incentive
- Gadget
- Premi
ed altri innovativi:
- La capacità di apprezzare il merito e l’impegno delle persone
- La capacità di far crescere i collaboratori
- La capacità di essere un punto di riferimento umano e professionale per le persone
- La capacità di utilizzare un sano umorismo nello stile di leadership.

Il manager efficace si caratterizza proprio dalla misura in cui riesce ad amalgamare e ad esprimere questo mix di fattori – tutti ugualmente importanti – nella gestione quotidiana del lavoro, in funzione del suo livello gerarchico e del contesto organizzativo di appartenenza. Chi si dimostra bravo in questa alchimia manageriale, sviluppa una leadership a valore aggiunto.
Il dirigente che invece interpreta il suo ruolo con avarizia, miopia ed ignoranza, combina seri danni.
“Come sto andando? (E perché nessuno me lo dice?)”, è la frase/pensiero che ricorre in tutte quelle persone gestite da capi che non sanno o non vogliono dare feedback valutativi ai loro collaboratori. Per molti manager, il concetto di valutazione coincide con l’ansia dello stendere le “note di qualifica” invece di cogliere l’opportunità, come sarebbe auspicabile, di una verifica del lavoro e di un’occasione per incoraggiare/apprezzare lo sviluppo delle persone.
“In questa società non mi fanno crescere!”, è l’amara constatazione di tutti quei “bonsai aziendali” che si ritrovano compressi tra lo svolgimento di mansioni molto esecutive, spesso di basso contenuto professionale, ed uno stile di gestione da “risorse umane” nel senso peggiorativo dell’espressione. A volte succede che certi capi si mettano addirittura in competizione con un loro collaboratore, impedendogli di crescere, dimostrandosi anche avari di informazioni e suggerimenti utili per migliorare il lavoro.
“Maledetto il giorno che l’ho incontrato/a”, potrebbe essere il titolo di molte “scenette” quotidiane che raccontano di come è percepita/vissuta la figura del responsabile all’interno del gruppo di lavoro. I manager che saranno ricordati nel tempo come “modelli di eccellenza” in senso etico, umano e professionale sono molto rari.
La maggior parte finisce presto nel dimenticatoio, qualcuno anche con l’eco di qualche accidente.
“Che tristezza questo ambiente di lavoro!”. Un’affermazione che la dice lunga sulla patina di grigiore e pesantezza che ricopre le persone, “immobilizzandole” come la colata lavica fece con gli abitanti di Pompei.
Per un folto numero di manager, l’umorismo è una delle più sottovalutate e sottoutilizzate risorse gestionali con il conseguente risultato di produrre ambienti di lavoro noiosi, ripetitivi, senza ispirazione e in diversi casi, molto stressati.
Oggi il contributo che l’ umorismo può dare al management risiede proprio nel nuovo concetto di umorismo inteso come “risorsa-competenza manageriale a 361°”.
Il grado in più rappresenta simbolicamente il valore aggiunto generato dalla capacità innovativa di:

ü Raccontare battute, aneddoti, storie in modo pertinente ed efficace
ü Allentare le tensioni e sdrammatizzare
ü Ampliare le vedute e facilitare l’elasticità mentale
ü Utilizzare l’umorismo come “filo intermentale” per rimuovere residui di ansia e irritazione che inevitabilmente si accumulano lavorando ed interagendo con gli altri
ü Esprimere uno stile di leadership animato, valorizzante ed emotivamente coinvolgente.

Possiamo dunque definire il manager dotato di umorismo un “Company Energizer”, un personaggio che stimola costruttivamente le persone senza stressarle, che sa bilanciare efficacemente il momento dell’operatività con quello del gioco ed è consapevole del fatto che una sana risata rappresenta una momentanea vacanza per tutti.
Un’altra importante considerazione è che la presenza di un sano umorismo nei team è l’ indicatore del fatto che le persone padroneggiano la situazione, sono in relazione tra loro non come dei meccanismi assemblati ma come esseri umani ed hanno quindi maggiori probabilità di successo nel raggiungere gli obiettivi assegnati. Soprattutto, la stima reciproca e lo spirito del sano divertimento consentono alle persone di disinnescare le pericolose mine vaganti del gossip e dell’invidia.
Insomma, la generosità manageriale è un binomio inscindibile di riconoscimenti tangibili e piacevoli sentimenti.
Ecco perché chi trova un manager generoso, trova un tesoro.

Per ulteriori informazioni:
- www.olympos.it
- stefano.greco@olympos.it

IL MODELLAMENTO

La prima tecnica psicologica di cui ci occuperemo si chiama modellamento (“modelling”). È una tecnica utilizzata per lo sviluppo delle qualità personali riferite all’intelligenza emotiva e di alcune competenze manageriali fondamentali come ad esempio gestire le persone, presentare in pubblico e negoziare.
Nel lavoro, come anche in altri contesti, può capitare di incontrare/conoscere/frequentare persone che ci colpiscono per alcune loro qualità umane e/o professionali espresse in modo eccellente: “Franco ha una formidabile capacità di aggregare tra loro persone culturalmente molto diverse”, oppure “Luisa possiede la straordinaria dote di tranquillizzare le persone anche nei momenti più drammatici”.
Fare modellamento significa trasformare un semplice e casuale apprezzamento in una vera e propria opportunità di apprendimento strutturato.
Nel momento in cui avvertiamo chiaramente la motivazione e l’interesse a “fare nostre” le qualità manifestate da Franco e/o da Luisa, possiamo dunque “modellarli”.
La logica di fondo della tecnica del modellamento trae spunto dalle seguenti riflessioni:
1) Cosa fanno concretamente le persone di successo per avere successo?
2) In che modo, in particolare, raggiungono i risultati?
3) In che cosa specificatamente sono “diverse” dalle persone che non ottengono risultati?
4) Qual è la differenza che fa la differenza?
Osserviamo allora cosa quella persona fa nello specifico in termini di azioni e comportamenti per ottenere risultati per poi provare successivamente a “riprodurre”, con il nostro stile e il nostro modo di essere le abilità chiave sottese ai comportamenti della persona-modello.
È opportuno precisare, tuttavia, che modellamento non significa affatto imitazione.
Ad esempio: ci sono due tavoli sui quali sono disposti gli stessi ingredienti e strumenti per fare una torta. A un tavolo opera un bravo pasticcere, all’altro lavoro io, mediocre pasticcere.
A parità di dotazioni di base, cos’è che fa la differenza in termini di risultato? Le abilità nel dosare e amalgamare gli ingredienti, nell’utilizzare il forno e nel calcolare esattamente i tempi per ogni operazione.
Modellare il bravo pasticcere non significa necessariamente creare la stessa identica torta ma realizzarne una diversa che sia almeno commestibile, attraverso il riprodurre le azioni e i comportamenti del mio modello di riferimento. Con il tempo, attraverso l’esercizio sistematico – fondamentale se voglio diventare un pasticcere eccellente – perfezionerò il mio specifico prodotto che a un certo punto diverrà una vera e propria squisitezza.
Per ulteriori informazioni:
- www.olympos.it
- stefano.greco@olympos.it

IL MANAGER A COLPI DI SORRISO



Ognuno di noi possiede, in modalità e quantità diverse, un suo peculiare umorismo. Un modo tipico di dire o non dire le cose, di raccontare storie, di “utilizzare” la propria mimica facciale, gestuale e posturale nelle diverse interazioni sociali.
L’umorismo è un’energia che ci appartiene, ma spesso tendiamo a sacrificarla sull’altare della “serietà manageriale”.
L’esperienza personale mi ha insegnato che quanta più permeabilità esiste tra i mondi dell’umorismo e del management, tanto più lo stile di leadership ne trae beneficio in termini di efficacia e innovazione.
L’umorismo, tuttavia, è una risorsa da maneggiare con cura e il suo utilizzo può facilmente trasformarsi in un boomerang se non opportunamente gestito: permeabilità non significa quindi allagamento!
Come saggiamente Paracelso ci ricorda: “In natura tutto è veleno, dipende dalle dosi”. Non si dovrebbe dunque abusare dell’umorismo attraverso battute fuori luogo o che non fanno ridere, oppure impiegarlo per riempire in modo superfluo un vuoto di contenuti e/o di spessore professionale.
Costruire un ambiente sereno non significa quindi generare un clima ridanciano con effetto “circo Barnum” sull’operatività e sui servizi da espletare.
Avere il senso dell’umorismo significa padroneggiare una vera e propria “forma d’arte”, riuscendo a incanalare l’energia sprigionata dal buon umore verso una direzione costruttiva.
L’umorismo può essere sviluppato attraverso l’esercizio sistematico e l’utilizzo di tecniche appropriate. Ve ne proponiamo quattro. La prima in questo articolo, mentre le altre tre sul prossimo.
Per “tecnica” intendo un’azione consapevole e intenzionale attraverso cui indirizzare delle modalità di tipo psicologico, comunicativo e/o gestionale verso un determinato obiettivo.
Nell’umorismo occorre innanzitutto sapere cosa comunicare e come, rispetto a chi ho di fronte e agli obiettivi relazionali del momento. Conditio sine qua non per sviluppare l’umorismo è infatti conoscersi come persona e ri-conoscere il proprio modo di essere e comunicare.
Tratto da: "Umorismo & Management"
Per ulteriori informazioni:
- www.olympos.it

SCEGLIERE UN CORSO DI LAUREA NON E’ UN GIOCO DA RAGAZZI



Parafrasando un celebre motto latino, possiamo dire che, mai come oggi, “ognuno è artefice del proprio apprendimento”. Chiunque debba scegliere quale corso di laurea frequentare, è chiamato a sviluppare una visione prospettica della sua scelta, ossia deve avere molto chiaro il collegamento tra il percorso di studi – “cosa voglio approfondire” – ed il proprio progetto professionale – “cosa voglio fare con quello che ho approfondito”. Se questo “ponte” è assente o pericolante, le conoscenze acquisite all’Università rischiano di rimanere confinate all’interno di un’ erudizione fine a se stessa.
Oggi nessuno può permettersi di “sbagliare” la scelta di una Facoltà universitaria, di una specializzazione, di un master o di un corso di aggiornamento. Oltre a rischiare di rimanere tagliati fuori dal mercato del lavoro e doversi poi “accontentare” di un’attività dequalificata rispetto agli studi svolti, la persona può incorre in frustrazioni e demotivazione nel momento in cui sente chiaramente di aver perso tempo e soldi. In questa prospettiva, il tempo va considerato sempre più un valore esistenziale, dal momento che perdere tempo equivale a perdere vita. Scegliere un corso di laurea significa dunque fare un vero e proprio investimento, il cui valore di ritorno è strettamente legato alla personale realizzazione sul lavoro.
Ma quali sono i criteri per compiere la scelta giusta?
La risposta è: prima di scegliere, informarsi bene e soprattutto fare esperienza diretta.
Oggi, purtroppo, le università si preoccupano più del marketing di se stesse che dell’orientamento, della qualità della docenza o degli stage.
Il risultato è che lo studente deve compensare le carenze strutturali di sistemi scolastici, universitari e sociali in tema di orientamento e formazione con la propria iniziativa ed intraprendenza.
Provo a spiegarmi meglio con alcuni esempi: come fa oggi un ragazzo che vuole iscriversi ad Ingegneria navale ad “orientarsi”, vale a dire a capire se gli studi corrispondono al tipo di lavoro che gli piacerebbe realmente svolgere? Oppure, come fa una ragazza, che vuole intraprendere una carriera nel giornalismo, a comprendere se quella è una strada realisticamente percorribile per lei? Nella migliore delle ipotesi, entrambi troveranno depliant cartacei, siti Internet e “sportelli” in grado di fornire una mole di informazioni più o meno attendibili.
La criticità risiede proprio in questo: entrambi dispongono solo di informazioni.
Dov’è l’esperienza diretta? In che modo le strutture universitarie si adoperano per garantire a tutti la possibilità di una scelta coerente? Gli studenti, come possono realizzare il necessario collegamento tra i modelli teorici e la pratica del lavoro?
In realtà, l’orientamento del futuro ingegnere navale dovrebbe consistere nel trascorrere una settimana in un porto importante e/o in un cantiere navale mentre alla “giornalista” sarebbe senz’altro utile immergersi alcuni giorni nella redazione di un giornale.
Un’efficace attività di orientamento deve configurarsi con queste modalità pratiche se vuole costituirsi come il necessario punto di partenza della configurazione di un progetto professionale legato al futuro lavorativo delle persone.
E’ necessario, quindi, che ognuno si dia da fare con grinta e determinazione, utilizzando e vagliando una molteplicità di fonti informative. Soprattutto, bisogna sviluppare il senso pratico della conoscenza.
Per un neolaureato, ad esempio, è molto più utile e vantaggioso trascorrere un mese – gratis – all’interno di una Direzione del Personale di un’ azienda che pagare salato un master di due anni sulla “Gestione delle risorse umane” che si rivela presto essere un inutile prolungamento teorico dell’Università.
Nel momento in cui uno studente è chiamato a scegliere quale indirizzo dare al suo destino professionale, bisogna accuratamente che eviti gli estremi dell’idealismo – essere attratto solo dal “fascino” di alcune materie – o di una eccessiva razionalizzazione spesso fondata su stereotipi del tipo: “Mi iscrivo ad Economia e Commercio anche se non mi piace, ma almeno così troverò subito un lavoro”. L’obiettivo per tutti è: “Vestire le emozioni di un progetto” altrimenti si rischia di cadere preda dell’impulsività o di un pregiudizio e subire la conseguente frustrazione dell’aver imboccato una strada sbagliata o quanto meno deludente. Nello stesso tempo, bisogna anche fare attenzione ad altri luoghi comuni, duri a morire, come quello della distinzione tra “laurea forte” e “laurea debole”.
Sono sempre le persone ad essere forti o deboli e a fare la differenza, non i titoli di studio!
E’ opportuno, inoltre, valutare sistematicamente il rapporto complessivo costi/benefici di una scelta formativa che comporti anche aspetti pratici come il trasferimento in un’altra città. Oggi, essendo decaduto il concetto di “Università di prestigio”, conviene rimanere a studiare nella propria città di residenza o luogo limitrofo, evitando inutili spese di affitto, viaggi e sostentamento. I molti soldi risparmiati serviranno successivamente per una qualificata specializzazione o esperienza di lavoro in Italia o all’Estero. Parafrasando un celebre motto latino, possiamo dire che, mai come oggi, “ognuno è artefice del proprio apprendimento”. Chiunque debba scegliere quale corso di laurea frequentare, è chiamato a sviluppare una visione prospettica della sua scelta, ossia deve avere molto chiaro il collegamento tra il percorso di studi – “cosa voglio approfondire” – ed il proprio progetto professionale – “cosa voglio fare con quello che ho approfondito”. Se questo “ponte” è assente o pericolante, le conoscenze acquisite all’Università rischiano di rimanere confinate all’interno di un’ erudizione fine a se stessa.
Oggi nessuno può permettersi di “sbagliare” la scelta di una Facoltà universitaria, di una specializzazione, di un master o di un corso di aggiornamento. Oltre a rischiare di rimanere tagliati fuori dal mercato del lavoro e doversi poi “accontentare” di un’attività dequalificata rispetto agli studi svolti, la persona può incorre in frustrazioni e demotivazione nel momento in cui sente chiaramente di aver perso tempo e soldi. In questa prospettiva, il tempo va considerato sempre più un valore esistenziale, dal momento che perdere tempo equivale a perdere vita. Scegliere un corso di laurea significa dunque fare un vero e proprio investimento, il cui valore di ritorno è strettamente legato alla personale realizzazione sul lavoro.
Ma quali sono i criteri per compiere la scelta giusta?
La risposta è: prima di scegliere, informarsi bene e soprattutto fare esperienza diretta.
Oggi, purtroppo, le università si preoccupano più del marketing di se stesse che dell’orientamento, della qualità della docenza o degli stage.
Il risultato è che lo studente deve compensare le carenze strutturali di sistemi scolastici, universitari e sociali in tema di orientamento e formazione con la propria iniziativa ed intraprendenza.
Provo a spiegarmi meglio con alcuni esempi: come fa oggi un ragazzo che vuole iscriversi ad Ingegneria navale ad “orientarsi”, vale a dire a capire se gli studi corrispondono al tipo di lavoro che gli piacerebbe realmente svolgere? Oppure, come fa una ragazza, che vuole intraprendere una carriera nel giornalismo, a comprendere se quella è una strada realisticamente percorribile per lei? Nella migliore delle ipotesi, entrambi troveranno depliant cartacei, siti Internet e “sportelli” in grado di fornire una mole di informazioni più o meno attendibili.
La criticità risiede proprio in questo: entrambi dispongono solo di informazioni.
Dov’è l’esperienza diretta? In che modo le strutture universitarie si adoperano per garantire a tutti la possibilità di una scelta coerente? Gli studenti, come possono realizzare il necessario collegamento tra i modelli teorici e la pratica del lavoro?
In realtà, l’orientamento del futuro ingegnere navale dovrebbe consistere nel trascorrere una settimana in un porto importante e/o in un cantiere navale mentre alla “giornalista” sarebbe senz’altro utile immergersi alcuni giorni nella redazione di un giornale.
Un’efficace attività di orientamento deve configurarsi con queste modalità pratiche se vuole costituirsi come il necessario punto di partenza della configurazione di un progetto professionale legato al futuro lavorativo delle persone.
E’ necessario, quindi, che ognuno si dia da fare con grinta e determinazione, utilizzando e vagliando una molteplicità di fonti informative. Soprattutto, bisogna sviluppare il senso pratico della conoscenza.
Per un neolaureato, ad esempio, è molto più utile e vantaggioso trascorrere un mese – gratis – all’interno di una Direzione del Personale di un’ azienda che pagare salato un master di due anni sulla “Gestione delle risorse umane” che si rivela presto essere un inutile prolungamento teorico dell’Università.
Nel momento in cui uno studente è chiamato a scegliere quale indirizzo dare al suo destino professionale, bisogna accuratamente che eviti gli estremi dell’idealismo – essere attratto solo dal “fascino” di alcune materie – o di una eccessiva razionalizzazione spesso fondata su stereotipi del tipo: “Mi iscrivo ad Economia e Commercio anche se non mi piace, ma almeno così troverò subito un lavoro”. L’obiettivo per tutti è: “Vestire le emozioni di un progetto” altrimenti si rischia di cadere preda dell’impulsività o di un pregiudizio e subire la conseguente frustrazione dell’aver imboccato una strada sbagliata o quanto meno deludente. Nello stesso tempo, bisogna anche fare attenzione ad altri luoghi comuni, duri a morire, come quello della distinzione tra “laurea forte” e “laurea debole”.
Sono sempre le persone ad essere forti o deboli e a fare la differenza, non i titoli di studio!
E’ opportuno, inoltre, valutare sistematicamente il rapporto complessivo costi/benefici di una scelta formativa che comporti anche aspetti pratici come il trasferimento in un’altra città. Oggi, essendo decaduto il concetto di “Università di prestigio”, conviene rimanere a studiare nella propria città di residenza o luogo limitrofo, evitando inutili spese di affitto, viaggi e sostentamento. I molti soldi risparmiati serviranno successivamente per una qualificata specializzazione o esperienza di lavoro in Italia o all’Estero.
Tratto da: "La formazione come palestra della professionalità"
Per ulteriori informazioni:
- www.olympos.it
- stefano.greco@olympos.it